Undici anni meno un mese

Quando undici anni fa tornai dal G8 di Genova, scrissi a caldo una cronaca da mandare ad un compagno anziano e malato che mi aveva chiesto un resoconto. Era un reportage freddo, cronologico, distante, quasi assente, perché stavo cercando di disconnettere la parte emotiva da quella analitica. L’ho fatto per un bel po’ di tempo. Ancora adesso rifuggo le analisi e i toni cattedratici. Mi rendo conto – adesso che circola la campagna 10×100 – che in realtà in quei giorni io ho seppellito una parte di me, e che il distacco con cui avevo redatto quella decina di pagine era un modo di prendere le distanze e difendermi, per tornare a dormire la notte senza sentire all’improvviso nelle orecchie il rumore delle pale degli elicotteri e sognare irruzioni della polizia nella mia stanza. Ma credo sia stato inutile, perché poi per mesi ho accompagnato i miei compagni arrestati in giro per l’Italia a raccontare Bolzaneto, e di quello che hanno passato non ho potuto dimenticare niente. E neanche loro, ovviamente. Così come non posso dimenticare che è stata solo questione di quindici minuti e anche meno se quella mattina non sono stata portata via anch’io. Devo ringraziare una decisione presa d’istinto e all’ultimo momento, sulla base del fatto che se doveva succedere qualcosa era meglio stare dove eravamo in trecentomila che non in poche centinaia. Quello che ho scritto è andato perso, non è stata una perdita voluta, e non credo che farò dei tentativi per recuperarlo.

La memoria deve sempre salvarsi, lo so. Alcuni dettagli stanno cominciando a sbiadire, alcuni nomi li sto dimenticando. Alcuni orari e circostanze si confondono. Rimangono impresse parole, contatti, strette di mano, abbracci, gesti di condivisione immediata ed istintiva. Il mare punteggiato di motovedette. I cecchini sui palazzi. I genovesi che ci davano acqua dalle finestre. Il ragazzo all’ultimo piano, a cavalcioni della ringhiera del balcone, che solleva il ritratto del Che. La ragazza in preda ad un attacco di panico, la sera del 20, prima di dormire. Il ragazzo vestito di nero, tedesco o inglese non so più, fulminato da un attacco epilettico sul lungomare, nel bel mezzo delle cariche, la chiamata folle ad un’ambulanza che non poteva arrivare. Le gambe del compagno conosciuto durante il viaggio, bruciate dallo scoppio di un lacrimogeno. La sensazione di essere in trappola. La morte di Carlo Giuliani ragazzo. Sguardi che duravano una frazione di secondo, e quello che si intercettava era la paura. Sete, limoni, sudore, bicarbonato, fazzoletti, magliette sporche, scarpe impolverate. Il manganello che si alza sulla testa del mio vicino. Tre giorni senza il tempo per mangiare, e nonostante tutto ancora l’adrenalina per correre, spiccare salti e trascinare per mano chi rimaneva paralizzato dal terrore. L’autocontrollo e la vigilanza costanti, senza mai potersi permettere un allentamento della tensione. La telefonata di un’amica dalla Germania, che chiedeva se stavo bene, l’unico momento in cui le lacrime sono scese libere. Il treno su cui ci fecero salire a Brignole la sera del 21, circondato di polizia sui binari perché nessuno scendesse, e al quale diedero l’ordine di partire – guarda caso – nel momento stesso in cui iniziava la mattanza alla Diaz. Le telefonate alle famiglie dei compagni arrestati, uno strazio che non avevo mai provato prima. Assemblee disgregate, difficoltà con le traduzioni, scoraggiamento. Mia madre che piange al telefono – non aveva mai pianto per me, prima – e mi dice di andarmene via, di non farmi ammazzare. Ancora adesso è convinta che io non le abbia mai raccontato tutto e si immagina che mi sia successo chissà cosa, e non cambierà mai idea. Gli incubi e la depressione dei giorni successivi, il sonno interrotto, la voglia di non parlare per poi prorompere in un fiume appena ci si rendeva conto di poter essere capiti. Essere travolti dalle polemiche, ignoranti e paternalistiche. E l’organizzazione, e la gestione, e la trappola dei reticoli, la stampa, le minacce, le casse da morto, gli innocenti e i colpevoli, la violenza e le mani bianche alzate. E i bianchi, e i neri, e i blu, e il morto l’avete voluto voi, no siete stati voialtri.

In quei tre giorni mi sono lasciata dietro qualcosa che non sono più riuscita a ritrovare. Non ne parlo volentieri con chi non c’era e guardava la tivù. Non sono riuscita a riscrivere, finora, quello che ho perso. Provo pudore. Tutto quello che è uscito di nuovo, tra ieri e oggi, quando ho realizzato di aver perso quelle pagine, è stata una scaletta degli eventi, le tappe, i posti. Il viaggio d’andata, l’arrivo, il campo di Redipuglia, il corteo migrante, il concerto, piazza Paolo Da Novi e l’attacco alla banca, le cariche alle dieci del mattino, gli scontri fino a sera, l’assassinio di Carlo, la nottata in bianco, gli arresti e i massacri del giorno dopo. Dati. Fatti. C’ero, sono stata lì. Me lo porterò dietro insieme alla nausea, alla rabbia, al dolore, all’odio e al disgusto, ad una sorta di disordine dei ricordi che tento di tenere sotto controllo. Perché mi serve continuare a parlare dei manganelli, dei gas, di quello che si sperimentò nell’acqua degli idranti, di quanto fosse provocatoriamente spropositata e sovradimensionata la presenza militare già da prima che venisse rotta la prima vetrina, della gestione terroristica dell’ordine pubblico, di come da mesi si fosse preventivato il morto, della banalità con cui è stata trattata tutta la questione, del fatto che è stato considerato assassino un intero movimento – variegato ed eterogeneo nell’analisi e nella pratica – ma non chi si è macchiato effettivamente dell’assassinio, delle umiliazioni e delle torture e poi ha fatto carriera, e tantomeno è stata considerata la responsabilità di chi ha imbastito il carrozzone mediatico e propagandistico mesi e mesi prima. Genova è stata una bomba che ha lasciato un cratere aperto nella coscienza collettiva di almeno un paio di generazioni di militanti, ed è inutile evocarla a sproposito ogni volta che si rompe un vetro o prende fuoco un’auto. Non si può mettere sullo stesso piano di nessun’altra cosa accaduta in questo paese. Ha dato inizio ad una gestione diversa delle piazze da parte della marmaglia dell’ordine, è stata un laboratorio di repressione, un caso di studio per i servizi e gli psicologi delle masse, un osservatorio sulle strategie e i rituali dei movimenti, la scusa per criminalizzare anche solo la presenza fisica delle persone nelle piazze. Undici anni sono passati, e le parole ancora mi muoiono in gola per quello che ci hanno fatto, per come ci hanno messo in trappola e spezzato le gambe e fatti diventare ostaggio dei discorsi da bar sui “violenti” e sui bancomat spaccati.  Dopo aver attraversato in questi anni le tappe della rimozione, della rielaborazione, della critica, del furore, del “poteva andare diversamente”, mi trovo davanti sempre gli stessi muri, le stesse obiezioni preconfezionate, le stesse ricostruzioni a favore di telecamera. Restano deposizioni, atti dei processi, testimonianze, foto, video, film, libri, ma niente, nessuno che finora abbia restituito realmente qualcosa a chi c’era.

8 commenti
  1. …grazie per la tua testimonianza. Io sono fra quelle che non c’erano e ha guardato in TV e letto sui giornali…non l’ho sentito sulla mia pelle, ma sulla coscienza si’…se ti interessa leggere cosa ho provato io e’ qui: http://italycalling.wordpress.com/2011/10/04/the-year-my-eyes-were-opened/ Mi piace molto il tuo pezzo, e’ molto personale ed onesto. Posso tradurlo per il mio blog? Ovviamente con link al tuo articolo originale. Saluti.

    • Grazie. Il tuo pezzo l’avevo già letto, quando ho scoperto il tuo blog, e mi era piaciuto molto, per il punto di vista che esprimeva e per la sensazione di sgomento e amarezza che lasciava trapelare. Amarezza che è anche la mia da anni. C’ero andata non riconoscendomi in nessun gruppo precostituito, e in disaccordo con la retorica dei Social Forum. Quello che poi è successo ha confermato tutte le mie paure legate al modo di gestire la piazza in quell’occasione. Ma nel pezzo che ho scritto non volevo polemizzare con il movimento e con persone che ancora adesso frequento, quindi mi sono limitata a parlare di pancia, per riportare in vita gli incubi che mi ha lasciato.
      Sono molto contenta, ovviamente, che tu lo ritenga meritevole di una traduzione, e ti dò carta bianca in questo senso.
      Grazie ancora, a presto.

  2. …spero che almeno parlarne e scriverne ti aiuti a rendere un po’ meno paurosi gli incubi che quell’esperienza ti ha lasciato. Grazie per l’autorizzazione, appena posso traduco, spero presto (spero, eh)! A presto, ci si vede nella rete ;-)

  3. A mente fredda, penso che avrebbe potuto essere un post più analitico, anche alla luce delle riflessioni fatte con altr* compagn* dopo che l’ho pubblicato. Ma tant’è, ormai sta lì…

    Ri-grazie a te per la traduzione, ci vediamo/sentiamo in giro :)

  4. Io non c’ero il venerdì,sono riuscita ad arrivare solo il sabato, e forse posso capire solo a metà, ma i ricordi, tutti quelli che sono rimasti e quelli che cominciano a sbiadire mi parlano nello stesso modo in cui scrivi tu. Sono felice che tu ne scriva ancora, anche se in maniera differente.
    Piacere di averti trovata!

  5. grazie a te! per me è un piacere riprendermi il confronto con chi c’era, e anche con chi non c’era, al di là del senso di vicinanza reciproca e della necessaria rielaborazione collettiva: credo che dopo tanto tempo – e soprattutto adesso che si è presi nel meccanismo cerchiobottista delle sentenze – possa essere un modo anche per analizzare in maniera più razionale il “come” si è andati in piazza, come pure le dinamiche del “prima”.

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